Quel treno per Yuma: western e mitopoiesi

Quel treno per Yuma: 1957 contro 2007.
Il remake di Mangold riesce nell'impresa di superare l'originale. 

Come? Attraverso una fine (ri)lettura del canone classico western per fermarsi sulla soglia della crepuscolarità, eludendo estatiche e necrofiche epifanie.
La storia, finalmente, viene raccontata: ampio spazio a sparatorie, ieratismi annessi, con tanto di assalto alla diligenza, da manuale nel suo barocchismo. Non manca l'ironia, né una vaga elegia, ma il film di Mangold mira ad una intensa mitopoiesi (a volte verbosa) che trova in Russel Crowe e nel suo affascinante Ben Wade, quasi sempre ammanettato, la sua piena rappresentazione. L'originale, insomma, viene rivitalizzato, così come accade con il Grinta dei Coen e il Django tarantinesco.
La strada del nuovo western dovrebbe, dunque, seguire le indicazioni dei summenzionati esempi (evitando, magari, le derive onanistiche di Tarantino, ben esemplificate nel trionfo di sangue successivo alla morte del cattivo Di Caprio).
Il cinema western deve ritornare alla sua originaria funzione, quella che i poemi omerici avevano (hanno) nella letteratura, attraverso un rinnovarsi del linguaggio (che non significa continuare a scimmiottare Ford, Hawks, Leone, Penn, Eastwood e compagnia, troppo spesso esibiti e non metabolizzati).
Banale quanto si vuole, ma tra ibridazioni Pop e contaminazioni con Horror o Fantascienza ci si dimentica che un film western per funzionare deve prima di tutto saper fare una cosa: creare Miti e saperli raccontare.
Il resto sono chiacchiere.

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